24 novembre, 2024

Il Giudizio di Dio - Il mistero della morte - Prima Parte (1/3)

 

Il Giudizio di Dio

Il mistero della morte

Parte Prima (1/3)

 

Non sapete né il giorno né l’ora

Mc 13,35

Tenetevi pronti, perché nell’ora che non immaginate il Figlio dell’uomo verrà.

 Mt 24, 44

 Preparàti alla morte

Gesù Cristo collega la futura nostra morte alla sua venuta come Giudice glorioso e misericordioso. Così l’attesa della morte per il cristiano è l’attesa di Cristo. È evidente quanto questo pensiero sia consolante ed incoraggiante. La tetra ombra della morte è assorbita dalla luce gioiosa di Cristo. Non ci viene incontro la morte ma la Vita che ha vinto la morte.

Oppure si può dire che per il cristiano la morte apre le porte della Vita. Viene Colui che fa cessare in noi per sempre ogni sofferenza, ogni angoscia, ogni turbamento, ogni tormento, ogni dubbio, ogni colpa. È la venuta dello sposo, del quale parla la parabola delle dieci vergini. Ciò ci stimola a tenere i conti a posto, in modo che alla sua venuta sappiamo presentarGli un rendiconto onorevole e lodevole, così che non ci sia più nulla da pagare e, se ci fosse, ci attende il purgatorio. E se non avessimo fatto quello che dovevamo fare? Se avessimo sepolto il talento anziché trafficarlo? Dio non voglia!

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Cristo ci fa presente che la morte può giungere da un momento all’altro, anche in gioventù e mentre si gode piena salute: un incidente stradale, un’alluvione, un infortunio sul lavoro, un terremoto, una distrazione fatale, un atto terroristico, un infarto, un ictus cerebrale.

La frequente meditazione sulle gioie del paradiso è un esercizio molto utile per tenerci pronti ad accogliere la venuta del Signore. La morte diventa in qualche modo desiderabile, non certo in sé stessa, ma in quanto condizione necessaria per l’incontro con Cristo.

Bisogna fare in modo che le gioie del paradiso ci appaiano molto concrete e reali, quasi palpabili, come lo sono effettivamente in sé stesse, ma siccome noi per adesso le cogliamo solo con concetti astratti e metafisici, ci appaiono vuote, insipide ed evanescenti a confronto con i piaceri di questa terra, i quali, benché assai inferiori in sé stessi, ci appaiono più importanti, più concreti e più appetibili.

 

Lo scorrere del tempo della vita presente consente alla volontà di mutare direzione tutte le volte che lo vuole o verso Dio o contro Dio. Quello che non può evitare è l’inclinazione verso l’assoluto. Col terminare del tempo della vita terrena, viene meno alla volontà la possibilità di far succedere nel corso del tempo, le scelte o per Dio o contro Dio.

Ma perché al momento della morte resta per sempre la scelta che la volontà ha fatto in quel momento? Perchè in quel momento, mancando lo svolgersi del tempo, ormai esaurito, viene meno la stessa possibilità di cambiare scelta che per essenza avviene nel tempo e per questo la scelta resta quella che ha fatto in quel momento: o per Dio o contro Dio.

 

  

Immagini da Internet:
- L'angelo della morte, Emile Jean Horace Vernet 
- Figure, XVIII-XIX Secolo

20 novembre, 2024

Come convertire gli ipocriti

 

Come convertire gli ipocriti

Sulla cattedra di Mosè

si sono seduti gli scribi e i farisei

Mt 23,2

Il peccato di ipocrisia è molto grave e difficilmente rimediabile, perché sorge da una volontà decisa, determinata, cosciente ed ostinata, sorge da una precisa scelta e concezione della vita e rende cieco il peccatore che vi casca.

L’ipocrita è estremamente sicuro di sé e dà l’apparenza di vivere tranquillo in questa convinzione, si mostra affabile con i suoi complici, ha il favore del mondo. Egli è certo di avere ragione e quindi non ascolta nessun avvertimento e nessun rimprovero. Disprezza il giusto che si accorge della sua ipocrisia, gli mostra il giusto cammino, lo rimprovera e gli smaschera i suoi inganni. Lo deride o lo ignora come se questi fosse uno stupido o un invidioso del quale non occorre tenere nessun conto. Ed avendone la possibilità, per poter sbarazzarsi di lui gettandogli addosso una cattiva fama, lo calunnia e gli dà una pugnalata alla schiena o simile ad un serpente gli si avvicina dolcemente e lo morde col suo veleno.

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Indubbiamente Cristo sapeva leggere nei cuori ad una profondità che a noi non è concessa. Come possiamo sapere se una persona che mostra molto zelo religioso e compie opere buone verso il prossimo è sincera o è un’ipocrita? Come sappiamo se opera veramente per Dio o per un successo umano? Come sappiamo se ha una fede autentica o se la sua è una pratica religiosa per aver successo in un ambiente religioso?

Immagine da Internet:
- Gesù, i farisei e gli scribi, miniatura del XV secolo dal codice De Predis. Biblioteca reale di Torino.

19 novembre, 2024

La rivoluzione copernicana di Kant e il cogito di Cartesio - Terza Parte (3/3)

 

La rivoluzione copernicana di Kant

e il cogito di Cartesio

Terza Parte (3/3) 

L’oggetto della metafisica

Cartesio ha ristretto l’oggetto della metafisica dall’ente nelle sua infinita vastità e varietà, come aveva fatto Aristotele, al mio esistere, cosicchè adesso bisognava trovare tutto nel mio io, mentre con Aristotele la realtà va ben al di là del mio io.

Kant da una parte recupera il valore della cosa in sè extramentale, ma nel contempo, accettando l’io penso cartesiano, chiude l’intelletto nell’io in modo tale che non riesce più ad uscire per cogliere l’ente, e allora a Kant resta come oggetto della metafisica soltanto l’autoanalisi della ragione da parte di se stessa.

Il pregio di Kant, comunque, è che sa che la ragione è spirito, ma a causa della autochiusura nell’io, resta bloccato per quanto riguarda il problema dell’esistenza di Dio, per cui egli riduce Dio a un’Idea della ragione. Invece Cartesio, che pretende di fondare ed estrarre il realismo dall’idealismo, con prodigiosa mossa rocambolesca e sorpresa consolante di tutti, tira fuori la colomba del realismo dal cappello dell’idealismo. Per questo alla fine Cartesio conclude con Aristotele che Dio esiste veramente fuori dell’anima.  

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Il pregio di Kant è che sa che la ragione è spirito, ma a causa della autochiusura nell’io, resta bloccato per quanto riguarda il problema dell’esistenza di Dio, per cui egli riduce Dio a un’Idea della ragione. Invece Cartesio, che pretende di fondare ed estrarre il realismo dall’idealismo, con prodigiosa mossa rocambolesca e sorpresa consolante di tutti, tira fuori la colomba del realismo dal cappello dell’idealismo. Per questo alla fine Cartesio conclude con Aristotele che Dio esiste veramente fuori dell’anima. 

La posizione di Fichte: che cosa ce ne facciamo di una «cosa», che supponiamo esistente fuori di noi, ma non sappiamo che cosa è? Vogliamo capire una buona volta che di ciò che è fuori di noi non sappiamo niente semplicemente perchè non c’è niente? La cosa in sé è un’invenzione assurda di Kant! Ma così andava perduto l’ultimo residuo di realismo, Dio non poteva più nascondersi dietro alla cosa e l’idealismo si avviava alle sue estreme conseguenze ateistiche e panteiste. 


Al terzo grado di astrazione l’intelletto non si limita ad una semplice apprensione concettuale dell’ente comune o universale, che astrae da ogni materia, ma formula un giudizio esistenziale per il quale distingue la sostanza materiale da quella spirituale e quindi formula un concetto analogico dell’ente esistente che abbraccia in sé sia la materia che lo spirito. Si tratta di cogliere l’essere come atto dell’ente. Ora né Cartesio né Kant sono giunti a tanto, ma si sono fermati: Cartesio al mio esistere e Kant all’io penso, il mio spirito o la mia ragione.

Il vertice massimo dell’azione intellettuale corrisponde al fondamento primo dell’esistenza. Alla causa prima, colta dall’intelletto, corrisponde il fine ultimo, oggetto della volontà. Il nostro spirito ha il potere di sollevare il nostro sguardo al di là della finitezza della nostra realtà umana e di scoprire la causa prima e quindi il fondamento della nostra esistenza partendo dagli effetti sensibili creati. Ecco allora la metafisica e la teologia. Invece la nostra volontà ha il potere di innalzare, entro certi limiti, il nostro essere obbedendo alla volontà divina, per cui l’uomo si assimila a Dio, pur restando sua creatura. E qui abbiamo il compito della morale.

In questa duplice attività conoscitiva e morale l’uomo, come dice Sant’Agostino, «trascende se stesso», và, in certo modo, oltre se stesso, supera se stesso, tende verso l’alto, verso Dio, fino a raggiungerlo o possederLo nella visione beatifica.

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17 novembre, 2024

La rivoluzione copernicana di Kant e il cogito di Cartesio - Seconda Parte (2/3)

 

La rivoluzione copernicana di Kant

e il cogito di Cartesio

Seconda Parte (2/3) 

  Dal sensibile all’intellegibile o dall’intellegibile al sensibile?

Per Aristotele la certezza iniziale, originaria e fondamentale non è, come per Cartesio la certezza di esistere, ma la certezza sensibile. Per Aristotele io so di esistere perché ho conosciuto cose che ho attorno a me e davanti a me. Ma chi ha ragione?

Aristotele è ben consapevole che la veracità del senso rende poi possibile la veracità dell’intelletto, non nel senso che il vero intellettuale non sia più certo del vero sensibile, ma nel senso che la veracità dei sensi condiziona e permette all’intelletto di esercitare il suo superiore potere veritativo. Se il senso ingannasse, la verità intellettuale sarebbe impossibile. Se io mi sbagliassi nel giudicare bianca la neve non potrei neppure con l’intelletto conoscere la verità circa la neve e farmi un concetto di neve come sostanza dal colore bianco.

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Il contenuto del concetto non è una res che rappresenta un’altra res, non è un segno strumentale, ma è, come dice Giovanni di San Tommaso, un segno formale intenzionale della res fuori dell’anima.

Per Cartesio come per Kant è impossibile partendo da una conoscenza a posteriori arrivare alla conoscenza a priori. Invece per Aristotele è vero l’inverso: è basandosi su ciò che è «dopo» ossia partendo dall’esperienza e dalla fisica che l’intelletto arriva a ciò che sta «prima», alla metafisica. Chi ha ragione?

Anche questa volta la palma va ad Aristotele. Egli infatti dimostra che il sapere empirico, ossia il sapere fisico, che parte da ciò che è ontologicamente dopo, ossia che vale di meno, temporalmente, nello sviluppo del sapere, viene prima del sapere di ciò che è prima in senso ontologico o assiologico, cioè la metafisica. Solo il sapere divino parte da ciò che viene prima, lo Spirito assoluto, per sapere ciò che assiologicamente è dopo, il livello empirico dell’ente, oggetto del sapere fisico.

Noi troviamo il fondo della realtà cominciando con lo scavare alla superficie (fisica), perché noi viviamo alla superficie, benché possediamo uno spirito capace di andare a fondo.

Questa dottrina aristotelica viene ripresa da San Tommaso d’Aquino, il quale indica due modalità o metodi di giudicare o di arrivare alla verità: il iudicium inventionis o via inventionis e il iudicium resolutionis o via iudicii, corrispondenti rispettivamente all’induzione e alla deduzione della logica aristotelica. Col primo giudizio noi partendo dall’esperienza ci eleviamo alla conoscenza delle realtà superiori. Col secondo giudichiamo delle realtà inferiori in base a quelle superiori.

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14 novembre, 2024

La rivoluzione copernicana di Kant e il cogito di Cartesio - Prima Parte (1/3)

 

La rivoluzione copernicana di Kant

e il cogito di Cartesio

Prima Parte (1/3)

Non la mia, ma la tua volontà sia fatta

Lc 22,42

 Devo guardare fuori o devo e guardare in me stesso?

Dove si dirige il nostro sapere? Alla realtà esterna o verso l’intimo del mio io? Gli idealisti, al seguito di Cartesio non hanno dubbi: tutto si risolve nell’io. Essi sembrerebbero riprendere l’interiorismo agostiniano, che concorda con l’idealismo platonico e che  troviamo nella Bibbia.

Se invece andiamo a ben guardare, gli idealisti e i cartesiani sembrano agostiniani, ma in realtà sono dei sofisti alla maniera di Protagora, confutato a suo tempo da Aristotele e dallo stesso Agostino. Essi infatti confondono l’io con ciò che troviamo nel nostro io. Un conto invece è guardare a me stesso come se io fossi l’unica cosa da sapere e un conto è guardare in me stesso, a che cosa c’è in me stesso, per cui io sono distinto da questa cosa. Nel primo caso io finisco per identificarmi con Dio. Nel secondo trovo Dio in me, ma Egli resta trascendente e ben al di sopra di me.

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Aristotele ci ricorda che proprio per poter arrivare a conoscere il valore più importante, ontologicamente a priori, cioè lo spirito, devo partire dall’esperienza sensibile delle cose materiali, ontologicamente meno importanti, anzi minime, a posteriori.

La metafisica per Kant non è un sapere che sta in alto (a priori), perché ci arriviamo partendo dal basso (a posteriori), come vuol fare Aristotele, ma perché è già di per sé stessa in alto, parte dall’alto del cogito cartesiano, l’«io penso» kantiano, e semmai, come per Cartesio, scende in basso nelle scienze sperimentali, dando ad esse fondamento e rendendole possibili.

Dobbiamo dire dunque che tanto Aristotele quanto Cartesio e Kant ammettono che la metafisica ha per oggetto l’esistente, lo spirito e Dio.


Ciò che Cartesio e Kant respingono come ingenuo … Quello che rifiutano è il metodo di Aristotele, e cioè: l. la certezza indimostrata, dell’esistenza delle cose e dell’esistenza di Dio fuori dello spirito umano; 2. quella che essi considerano la pretesa di affermare le cose, lo spirito e Dio applicando il principio di causalità e partendo dall’esperienza sensibile mediante un processo astrattivo.

Per Aristotele l’oggetto del nostro conoscere è l’ente esterno all’anima, le cose che vediamo fuori di noi e che sperimentiamo con i sensi, ossia ciò che esiste con un’essenza, ovvero un’essenza (usìa) dotata di essere (einai), un ente (on) col quale l’intelletto si pone in contatto mediante i sensi, così da poter cogliere o intuire l’essenza dell’ente o della cosa mediante il lavoro astrattivo dell’intelletto. 

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10 novembre, 2024

Chi è il tradizionalista?

 

Chi è il tradizionalista?

Custodisci il deposito

I Tm 6,20

Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto

I Cor 15,3

 Chiarire il significato di un termine

 Sentiamo di frequente l’uso di questo appellativo «tradizionalista» o in bocca a certi cattolici che tengono a qualificarsi come tradizionalisti e se ne vantano o in bocca di altri che qualificano questi cattolici con questo appellativo intendendolo in senso spregiativo o come nota di biasimo. Questi altri, di orientamento modernista, si offenderebbero a sentirsi chiamare con quel nome. Si tratta di una situazione anormale, spiacevole, incresciosa, segno di una reciproca incomprensione, alla quale occorre rimediare e per la quale tutta la Chiesa soffre.

Come mai questa situazione? Da che cosa è nata? Come sono esattamente i suoi termini? Come rimediarvi? Vediamo qui cosa possiamo fare perché tra questi nostri fratelli sorga la pace in una serena collaborazione reciproca, ciascuno mettendo a frutto i propri talenti e i doni ricevuti. 

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Se per tradizione intendiamo la trasmissione di bocca in bocca della parola di Dio, la verità evangelica si chiarisce nella parola più che ricorrendo allo scritto. È nel colloquio franco e fraterno che la Chiesa ha sempre risolto le controversie sull’interpretazione della Parola di Dio, più che facendo appello allo scritto, benché anche il far appello alla tradizione scritta contro le posizioni dei vescovi o del Papa non appaia efficace, dato che sono loro ad essere gl’interpreti della tradizione. Il dato della tradizione è norma di fede non in base al semplice giudizio del fedele, ma solo quello riconosciuto tale dalla Chiesa, dato che così diventa dogma di fede.

Il Vangelo non è originariamente uno scritto, ma è una parola messa per iscritto. Se quindi sorge un dubbio di interpretazione, non basta far capo allo scritto, ma bisogna consultare l’autore o chi per lui, cioè i successori degli apostoli.

Esser fedeli alla Tradizione non chiede il rifiuto delle nuove dottrine del Concilio quasi fossero deviazioni liberali, luterane, massoniche o moderniste. Al contrario, il tradizionalista alla Padre Tyn è quello che si è accorto che non esiste alcun contrasto fra le dottrine del Concilio e quelle della Tradizione, salvo che non si tratti di usi, idee o comportamenti, che la Chiesa stessa ha abbandonato.

Ciò di cui il tradizionalista postconciliare si accorge è che nelle dottrine del Concilio i dati della tradizione non solo sono confermati, ma meglio conosciuti e principio di una vita cristiana migliore e più santa.

Immagine da Internet

08 novembre, 2024

Il concetto dell’Intero nel pensiero di Gustavo Bontadini - Terza Parte (3/3)

 

Il concetto dell’Intero nel pensiero di Gustavo Bontadini

Terza Parte (3/3)

Da Parmenide attraverso Severino

Il concetto bontadiniano dell’intero trae ispirazione da quello di Severino, che a sua volta si basa sul concetto parmenideo univoco dell’essere inteso come assoluto essere, essere necessario ed eterno, unico ente esistente, per cui si capisce che a queste condizioni tutti gli enti finiti, temporali, divenienti e contingenti o non esistono o dovranno far parte dell’unico esistente, appunto l’Intero: o saranno mere illusoria apparenze, come la maya indiana,  o dovranno essere le varie apparizioni o teofanie dell’Assoluto o dell’Intero.

Parmenide è stato indubbiamente lo scopritore dell’ipsum Esse, l’essere sussistente, infinito ed assoluto, ma non ne ebbe piena coscienza, perché ritenne che esso fosse l’essere (einai) come tale. E invece, come chiarirà San Tommaso, l’ipsum Esse è il summum ens e il primum ens, al vertice degli enti.

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Severino ha esposto la sua visione dell’Intero nel suo famoso scritto «la struttura originaria». Il progetto severiniano del quadro sintetico metodologico dell’accesso all’Intero è certamente importante, ma purtroppo è viziato dall’impostazione non propriamente ontologica, ma meccanicistica di impronta cartesiana.

Osserviamo che la struttura è l’ordine delle parti di qualche artificiato plasmabile od organizzabile in parti: la struttura di un edificio, la struttura di una macchina, la struttura di un’opera d’arte.

Inoltre la metafisica ha sì per oggetto primario la sostanza e secondariamente l’accidente, ma, come ho detto, non tratta necessariamente della sostanza composta, ma abbraccia anche la sostanza semplice, che non è un intero, ma semplicemente un uno o forma indivisibile. La metafisica divide invece l’essere in essere per partecipazione ed essere per essenza.


Il partecipare in senso metafisico non va inteso in senso quantitativo, così come la fetta di una torta è parte della torta, e neppure sociologico, così come l’individuo è parte della società, o in senso anatomico, così come il fegato è parte del corpo dell’animale.

L’essere per partecipazione è un essere inferiore e dipendente dall’essere per essenza, che è essere nel senso pieno ed assoluto, mentre l’essere partecipante è essere in senso debole, essere relativo all’essere per essenza.

Immagini da Internet
- Eraclito
- Leibnitz

07 novembre, 2024

Il concetto dell’Intero nel pensiero di Gustavo Bontadini - Seconda Parte (2/3)

 

Il concetto dell’Intero nel pensiero di Gustavo Bontadini

Seconda Parte (2/3)

 L’impresa di Bontadini

Il bisogno di Bontadini in sé era legittimo, ma l’errore fu quello di partire da un principio insufficiente e sbagliato, che non può essere l’io, perché l’io non è un trascendentale ma un categoriale quindi daccapo, l’io non può coprire tutto l’orizzonte dell’essere, perché essere non è solo l’io, ma anche il tu. Chi centra tutta la realtà sul proprio io non capisce più l’alterità, la differenza e la diversità. Non gli resta che o negarla o di ridurla al proprio io, due modi per non render loro giustizia.

Per Bontadini l’oggetto della filosofia e della metafisica è l’intero. «La filosofia è la funzione dell’Intero». «La metafisica è scienza o protoscienza dell’Intero». «La filosofia sopravvive come scegliersi del singolo in rapporto all’Intero». «L’assunto degno di un filosofo sarebbe quello di inserire la scienza nel piano dell’intero, dopo averla scaricata dei presupposti dei quali è gravata» (probabile accenno al realismo). «La “filosofia” contemporanea non è sul piano dell’Intero».

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Il moderno idealismo costituisce, secondo lui, un progresso formidabile (garantisce all’umanità la possibilità di pensare), ma esso sarebbe inveramento dell’antico realismo, che egli vede in Parmenide ancor prima che in Aristotele. Ora, dico io, che vi sia un punto di contatto fra idealismo e realismo lo troviamo in San Tommaso, quando, riprendendo Aristotele, afferma che intellectus in actu est intellectum in actu. L’intelletto in atto è l’inteso in atto.

Quindi qui abbiamo un’identità intenzionale o rappresentativa (esse intentionale, esse cognitum) non però ontologica, del pensare con l’essere. L’essere è nel pensiero in quanto pensato, ma resta fuori in sé stesso. Invece Bontadini non vuole questo essere extramentale e concepisce l’essere solo come essere pensato, alla maniera degli idealisti. Però vuol distinguere un «vero» da un falso idealismo. Quello vero si troverebbe in Parmenide, dove secondo Bontadini è possibile una conciliazione dell’idealismo col realismo di Aristotele.


E forse questo intendeva dire Parmenide col suo assioma to autò to noèin kai to einai, «lo stesso è il pensare e l’essere»: un detto che però può ricevere due interpretazioni: o quella idealistica dell’identità del pensiero con l’essere, oppure realistica riferita all’atto del conoscere il vero: quando conosciamo la verità ciò che noi pensiamo è ciò che è.

Resta comunque il fatto che tra realismo ed idealismo occorre scegliere come si sceglie tra il vero e il falso. San Tommaso ha anticipato di sei secoli la confutazione dell’idealismo nell’art.2 della q.85 della Prima Parte della Summa Theologiae: l’idealista quando parla dell’eventualità di considerare come oggetto del sapere le idee e non la realtà.

Le idee (primae intentiones) sono mezzi per conoscere. Diventano oggetto di conoscenza solo in seconda battuta (secundae intentiones) nella logica.

Immagini da Internet: 
- Aristotele
- San Tommaso d'Aquino

05 novembre, 2024

Il concetto dell’Intero nel pensiero di Gustavo Bontadini - Prima Parte (1/3)

 

Il concetto dell’Intero nel pensiero di Gustavo Bontadini

Prima Parte (1/3)

Egli è tutto

Sir 43, 27

Tutte le cose sono a coppia

Sir 42,24

 

Alla ricerca di una visione originaria e totale della realtà

Non c’è dubbio che la filosofia in quella sua espressione fondamentale e suprema che è la metafisica, esprime il desiderio, l’aspirazione e il bisogno dell’uomo di formarsi un quadro complessivo della realtà, che possa unitariamente, ordinatamente e sinteticamente descrivere i suoi princìpi ed elementi, le sue articolazioni e modalità originarie e di fondo, in modo da avere una visione d’insieme – una specie di panorama -  che possa in qualche modo abbracciare tutta la realtà: una visione certa, dimostrativa, razionale, fondata, sistematica, sintetica, compendiosa, complessiva, totale, globale, completa, chiara ed unitaria della realtà, riducendo o riconducendo per quanto è possibile, tutto il sapere umano e filosofico a un'unica visione, espressa possibilmente in un minimo essenziale di proposizioni o asserzioni principiali e principali, fondamentali, evidenti, intuitive incontrovertibili, logicamente connesse fra loro e tutte dedotte da un principio primo assolutamente evidente.

Questa visione globale originaria onnicomprensiva si potrebbe paragonare al quadro di comando di un aereo o al quadro delle luci in una chiesa. Nella concezione cristiana dell’esistenza e della vita si può paragonare al Simbolo della fede. 

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L’essere sussistente, scoperto da Parmenide, è unico e uno solo perché in certo modo, virtualmente, è tutto, non nel senso che sia tutte le cose, ma tutte le perfezioni, come ha chiarito San Tommaso. In tal modo tutto è in qualche modo uno, non nel senso che s’identifichi all’Uno, ma nel senso che si raduni attorno e sotto l’Uno.

Il difetto di Parmenide, segnalato da Aristotele, è il fatto che il suo Uno negava le differenze e quindi la molteplicità degli enti. Ma non c’è dubbio che esiste un ente, Dio, che è assolutamente uno, primo di tutti gli enti e al vertice di tutti gli enti, insieme però con la molteplicità degli enti.

Platone comprese contro Parmenide che il due non è solo l’opposizione dell’essere al non-essere. Esso non è spregevole, ma apprezzabile, perchè esiste anche nella realtà in quanto unione dei diversi. E così Platone operò le prime distinzioni dell’essere, seguìto poi e perfezionato da Aristotele, il quale si premurò di evitare che la dualità diventasse dualismo.

Plotino riprese l’intuizione di Platone, secondo il quale tutto deriva dall’Uno, esce dall’Uno e torna all’Uno. Successivamente Proclo precisò questa visione riducendo il moto del reale a tre momenti

Bontadini scambia per dualismo la dualità aristotelica di pensiero ed essere come se il realismo ponesse un essere estraneo al pensiero, confondendo l’esterno con l’estraneo. Per il realismo invece l’essere è esterno, ma non estraneo, anzi il pensiero è fatto per l’essere e l’essere è fatto per il pensiero; ma il primato va all’essere e non al pensiero, perché è il pensiero ad essere il prodotto dell’essere e non viceversa.

Immagini da Internet:
- Parmenide
- Platone