08 maggio, 2024

Il cogito di Cartesio e la rivoluzione copernicana di Kant - Alle origini del modernismo - Quinta Parte (5/5)

 

Il cogito di Cartesio e la rivoluzione copernicana di Kant

Alle origini del modernismo

 Quinta Parte (5/5)

Quale concetto di Dio si deduce dal cogito cartesiano?

Bontadini delinea bene la conseguenza ultima del cogito cartesiano che si manifesta in pienezza nella filosofia di Hegel e di Gentile, per la quale io non mi trovo davanti a un tu altro da me indipendente da me, al di sopra di me, un Tu divino che mi ha creato, dal quale quindi dipende la mia esistenza, un Tu col quale posso dialogare, al quale parlo e che mi parla, un Tu che posso amare e che mi ama.

Né mi trovo davanti a persone simili a me, pur esse indipendenti da me, non prodotte da me, ma creature di Dio come me, con le quali pure posso entrare in una relazione di dialogo, di amore e di collaborazione. Niente di tutto questo, perché Bontadini ci ricorda che nella visione dell’idealismo assoluto da lui condiviso: «il pensiero non ha bisogno di garanzie ...

Continua a leggere:

https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/il-cogito-di-cartesio-e-la-rivoluzione_7.html


Occorre ricordare che tra il primato dell’idea sulla realtà e il primato della realtà sull’idea, si deve scegliere questo, come asserì Papa Francesco sin dall’inizio del suo pontificato. Identificare il pensiero con l’essere, il reale con l’ideale vuol dire identificare l’uomo con Dio.

L’idealista reifica l’idea e derealizza l’ente, come fa Berkeley. Smaterializza la materia e materializza il pensiero. Per questo Locke ammette la possibilità della materia pensante. Dall’uomo res cogitans di Cartesio salta fuori l’uomo-macchina, la res extensa di La Mettrie; Darwin confonde l’uomo con l’animale.

Oggi l’illustre scienziato Federico Faggin esprime le seguenti importanti considerazioni: “È la coscienza che capisce la situazione e che fa la differenza tra un robot e un essere umano".


Che differenza c’è tra la mira del realista e quella dell’idealista? In base a quanto ho detto, la risposta non è difficile: il realista ci vuol convincere che noi siamo creature di Dio, di un Dio che in sé esiste fuori di noi, davanti a noi, al di sopra di noi, indipendentemente da noi, prima di noi e in noi.

L’idealista invece ci vuol convincere, col tono oracolare di chi ci svela la nostra vera dignità, che il nostro vero essere non è affatto il nostro io empirico, che noi quindi non siamo affatto creati da un Dio distinto da noi che sta lassù in cielo fuori di noi e al di sopra di noi, ma che noi stessi, nella sostanza profonda, ultima e reale del nostro io, l’io trascendentale o assoluto, siamo Dio, quel Dio che il realista si immagina come un ente supremo abitante in cielo, quel Dio lì siamo noi.

Immagini da Internet: Federico Faggin e Julien Offroy de La Mettrie

07 maggio, 2024

Il cogito di Cartesio e la rivoluzione copernicana di Kant - Alle origini del modernismo - Quarta Parte (4/5)

 

Il cogito di Cartesio e la rivoluzione copernicana di Kant

Alle origini del modernismo

 Quarta Parte (4/5)

 In seguito Aristotele si accorse del medesimo inganno e ci avverte:

 

«Non perché ti pensiamo bianco tu sei veramente bianco, ma per il fatto che tu sei bianco, noi, che affermiamo questo, siamo nel vero».

L’essere dipende dal pensiero divino, non da quello umano. Pretendere che la verità delle cose debba regolarsi sulle nostre idee è come volerci sostituire a Dio. È solo Dio che ha il potere di far dipendere l’essere delle cose dal suo pensarle o idearle, ma questo solo perché ne è il creatore. Non siamo noi i creatori delle cose, ma le troviamo già esistenti prima e indipendentemente da noi! Altrimenti basterebbe che noi pensassimo di essere Napoleone per essere Napoleone.

Purtroppo il progetto kantiano, riprendendo il cogito cartesiano, va in questo senso. 

Continua a leggere:

 https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/il-cogito-di-cartesio-e-la-rivoluzione_60.html


Kant non sa nulla della secolare scuola tomistica; seconda, che la riforma cartesiana non gli va bene. Kant non ha nessun problema a riconoscere con Aristotele che la conoscenza dei fenomeni è ricavata dall’esperienza delle cose esterne.

Kant non disapprova la gnoseologia idealista, in quanto incentrata sull’idea più che sull’essere; rimprovera però Cartesio di aver fondato un idealismo problematico e non trascendentale come il suo: finissimo intùito di Kant, che si accorge che il cogito non è un io sono certo di sapere ma io sono certo di dubitare, il che non serve affatto a superare lo scetticismo, con l’aggravante di elevare il dubbio a principio di certezza.

Kant non è contrario alla metafisica, come molti realisti credono, come è ancora più evidente che non lo è Cartesio; al contrario, l’uno e l’altro crede di darle, ricorrendo all’idealismo, quel vero e solido fondamento che a loro giudizio il realismo non è riuscito a darle.



 

Così pure intento di entrambi è vincere lo scetticismo per dare al sapere un fondamento irrefragabile di certezza, opporsi al sensismo e all’ateismo, per affermare l’esistenza di Dio. Cartesio tenta di darne le prove sulla base del cogito. Kant propone la famosa prova morale tratta dalla coscienza del dovere.

Ma resta in entrambi una concezione idealistica di Dio, che si presterà alla critica feuerbachiana di Dio come creazione consolatoria ed alienante dell’immaginazione dell’uomo infelice ed oppresso, che preparerà l’ateismo di Marx.

Cartesio faceva professione aperta di fede cattolica. Tuttavia resta vero, come ha dimostrato Padre Fabro, che il sum cartesiano, se esplicitato nel suo pieno significato, conduce ad una divinizzazione dell’autocoscienza umana e quindi all’ateismo.

Immagini da Internet: Ludwig Feuerbach e Padre Cornelio Fabro

06 maggio, 2024

Il cogito di Cartesio e la rivoluzione copernicana di Kant - Alle origini del modernismo - Terza Parte (3/5)

 

Il cogito di Cartesio e la rivoluzione copernicana di Kant

Alle origini del modernismo

 Terza Parte (3/5)

 Leggiamo quest’altra tesi:

 

«lo spirito, usando della sua propria libertà, suppone che tutte le cose, della cui esistenza è possibile anche il minimo dubbio, non esistano, riconosce essere assolutamente impossibile che, frattanto non esista egli stesso»[1].

Osserviamo che nella ricerca del fondamento della verità la libertà non c’entra niente. Occorre invece la massima attenzione dell’intelletto alla realtà e la disponibilità ad arrendersi all’evidenza. Non si tratta assolutamente di creare dei dubbi artificiali. Non si tratta di dubitare dell’indubitabile, anche se certo occorre verificare se ciò che sembra certo è veramente certo. 

Continua a leggere:

https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/il-cogito-di-cartesio-e-la-rivoluzione_6.html



Come ci spiega San Tommaso, riprendendo Aristotele nella sua difesa del principio di identità e di non contraddizione nel IV libro della Metafisica, il filosofo che vuol giustificare il principio del sapere, della certezza e della verità deve certamente affrontare l’universalis dubitatio de veritate, domandandosi se è possibile, per concludere però immediatamente che tale dubbio può solo essere significato ma non realmente esercitato,  perchè comporterebbe la soppressione o l’autodistruzione del pensiero, giacchè, se sosteniamo una tesi, supponiamo che sia vera, altrimenti non la sosterremmo neppure.

Per fondare il sapere non c’è da ragionare, ma da vedere, come già sapeva Platone. Una volta visto l’ente con l’intelletto, una volta che l’intelletto distingue la causa dall’effetto, allora da lì la ragione parte per risalire o salire dagli effetti alle cause e per spiegare gli effetti in base alle cause e quindi costruisce il sapere.

È vero che Cartesio, quando parla dell’io, è ben lontano dal pensare all’io trascendentale di Kant o all’Io assoluto di Fichte, Schelling, Hegel o Husserl o Gentile. Egli pensa al suo io umano individuale empirico di Renato Cartesio, anche se è vero che intende parlare dell’io umano come tale.

Come Cartesio, Kant ritiene che fino al suo tempo, seguendo col metodo aristotelico, ossia realista, di basarsi sulle cose esterne, per fondare la metafisica, si sia sempre sbagliato.

C’è da dire quindi che l’operazione fatta da Cartesio e Kant per fondare la metafisica idealista è stata simile quella di Protagora che vede nell’uomo e non in Dio la regola della verità – e Platone lo rimprovera di ciò -, sia Cartesio che Kant spostano il riferimento del vero dall’oggetto al soggetto, dall’essere al pensiero.

Immagini da Internet: Cartesio e Kant

05 maggio, 2024

Il cogito di Cartesio e la rivoluzione copernicana di Kant - Alle origini del modernismo - Seconda Parte (2/5)

 

Il cogito di Cartesio e la rivoluzione copernicana di Kant

Alle origini del modernismo

 Seconda Parte (2/5)

 Che cosa si deve intendere per «filosofia moderna»?

 Il significato è ovvio: la filosofia di oggi, che si suppone più avanzata di quella di ieri, così come si parla della fisica moderna, della medicina moderna, della tecnica moderna. Chi preferirebbe qui l’antico al moderno? Nessuno. A questo punto i cartesiani, con abile mossa propagandistica, fin da subito dopo la morte di Cartesio, per accreditare la fama e l’autorità dell’amato maestro, si sono dati un enorme da fare con ogni mezzo per far credere al pubblico, alla stessa famiglia dei filosofi e all’intera umanità che Cartesio era il fondatore della filosofia moderna.

I cartesiani intendono la loro filosofia come passaggio epocale, definitivo e irreversibile dell’umanità o della ragione umana dal sapere apparente a quello reale, dalla antica ed ingenua concezione della realtà alla concezione matura e critica. Secondo loro prima di Cartesio nessuno poteva affermare nulla con certezza, ma tutto era dubitabile e l’umanità era priva del criterio della verità. 

Continua a leggere:

https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/il-cogito-di-cartesio-e-la-rivoluzione_5.html

 

Occorre dire, per la verità, che, se da una parte la Pascendi colpiva bene gli errori dei modernisti, non riconosceva quanto di buono c’era nella loro istanza innovatrice. Per questo avvenne che la reazione cattolica verso di loro fu a volte esagerata e furono colpiti anche innocenti, come per esempio il Padre Lagrange, il Card. Ferrari e il Padre Juan Arintero.

La vera filosofia, il vero sapere è il rafforzamento e l’aumento di ciò che già sappiamo e sapeva chi ci ha preceduto. Vera filosofia, vera saggezza, vera conquista della verità è imparare da chi ne sa più di noi, credere a chi è credibile.

In filosofia può essere saggio e doveroso rifare daccapo un lavoro fatto da chi ci ha preceduto circa una questione particolare, lavoro deludente che non ha ottenuto i risultati sperati o promessi. È saggezza abbandonare una via che si mostra essere un vicolo cieco per raggiungere una data meta. Ma è stoltezza pretendere di mettere in dubbio o di rifare daccapo il criterio o principio stesso che usiamo e non possiamo non usare per giudicare dei risultati ottenuti o per valutare il risultato del lavoro fatto.


 

Di questo criterio o principio occorre semplicemente prendere atto e difenderlo con risolutezza contro chi lo nega, il quale, peraltro, così facendo, non fa altro che confutare se stesso. Pertanto esso non può essere sostituito né se ne può avere uno migliore, così come non si può avere nulla di migliore dell’ottimo, né nulla che stia prima del primo.

 

 

Immagini da Internet:
- Padre Marie-Joseph Lagrange, OP
- Padre Juan Arintero, OP

04 maggio, 2024

Il cogito di Cartesio e la rivoluzione copernicana di Kant - Alle origini del modernismo - Prima Parte (1/5)

 

Il cogito di Cartesio e la rivoluzione copernicana di Kant

Alle origini del modernismo

 Prima Parte (1/5)

 

 Che cosa il modernismo?

 Il termine «modernismo» fu usato per la prima volta nel Magistero della Chiesa da San Pio X nell’enciclica Pascendi del settembre 1907. Egli, per sua stessa dichiarazione, lo assunse dall’uso che già ne veniva fatto dagli stessi modernisti e lo fece proprio, tanto che il sottotitolo dell’enciclica è «circa le dottrine moderniste», per designare appunto i modernisti: «modernisti, con tal nome sono chiamati comunemente costoro e a ragione» (n.4).

Un gruppo degli stessi modernisti, nel novembre di quell’anno, pubblicò un «programma dei modernisti», designando se stesso con quel nome, tuttavia a titolo di vanto e non di biasimo, come invece lo usa il Papa, per difendersi dalle accuse del Papa, per sostenere di non esser stati capiti, ma, come osserva Padre Fabro, finirono per difendere i loro errori e confermare in  fin dei conti che sbagliavano.

Continua a leggere:

https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/il-cogito-di-cartesio-e-la-rivoluzione.html


Quanto ai modernisti, l’istanza che la Chiesa assumesse quanto di buono era stato scoperto dalla filosofia moderna e dalle scienze umane, che riconoscesse quanto di valido si trovava nella teologia protestante, nonchè nelle culture, religioni e civiltà scoperte dalle attività missionarie ed esploratrici, la necessità di addolcire pratiche pastorali ed ascetiche troppo severe, tutto ciò era una giusta istanza, e bisogna dar atto che esisteva nei modernisti.

Ciò che faceva loro difetto era il possesso di criteri di giudizio e di valutazione basati su di una solida e integrale fede cattolica.

Come osserva giustamente il Gilson, o l’intelletto è realista immediatamente fin dall’inizio del conoscere o il realismo non lo si ottiene più. Nel cogito è possibile entrare partendo da fuori e allora si può uscire per cogliere il reale. Ma se si parte dal cogito dubitando del reale, il reale non lo si coglie più. Un ponte lo possiamo costruire se vediamo l’altra sponda. Solo allora potremo passare dall’una all’altra sponda, alternare la conoscenza (diretta) alla coscienza (riflessa). Ma se non la vediamo non possiamo costruire nessun ponte. Se invece vediamo e riconosciamo le cose fuori di noi, allora possiamo costruire il ponte fra loro e il nostro intelletto. Ma se l’intelletto sta per principio chiuso in se stesso, non può raggiungere la realtà esterna, perché non ha una direzione verso la quale muovere ed è tentato di credere che tutto l’essere si risolva nell’io.


Così bisogna dire francamente che il trascendentale tomista e quello kantiano non sono rispettivamente il trascendentale antico e quello moderno, come crede Maréchal, ma il primo è quello vero e il secondo è falso. Non si può fondare la metafisica sulla volontà, ma solo sull’intelletto. La volontà stia al suo posto preziosissimo, ma non pretenda di sostituirsi all’intelletto o di invadere il suo campo, se non vuol procurare la rovina di entrambi e con ciò stesso dell’uomo.

 
Immagini da Internet:
- Étienne Gilson
- Joseph Maréchal

03 maggio, 2024

In preparazione del Giubileo 2025 - Terza Parte (3/3)

 

In preparazione del Giubileo 2025

Terza Parte (3/3)
 

Siccome il Concilio di Nicea costituisce l’inizio del cammino fatto dalla Chiesa per chiarire il mistero della identità di Cristo, cammino che è proseguito con il Concilio di Efeso e si è concluso con il Concilio di Calcedonia, ho pensato di presentare ai Lettori anche gli insegnamenti di P. Tomas relativi a questi altri due Concili.

Papa Onorio fu eretico?

A complemento di Calcedonia, aggiungo una grave questione che si pose nel VII secolo, in occasione della discussione circa le due volontà di Cristo. Infatti se Cristo ha due nature, una umana e l’altra divina, è logico pensare che abbia due volontà: una umana e l’altra divina.

Senonché a quel periodo a Costantinopoli l’Imperatore simpatizzava per il monofisismo, per il quale Cristo è Dio, ma l’umanità è solo apparente. Al monofisismo corrispondeva il monotelismo, per il quale era la volontà umana di Cristo ad essere apparente, e in questa occasione avvenne la disavventura di Papa Onorio, il quale fu circonvenuto da Sergio, Patriarca di Costantinopoli, fautore del monotelismo.

Papa Onorio assunse una posizione che fu condannata dal Concilio Costantinopolitano III del 680, ma nel 682 Papa San Leone II lo scagionò dalla accusa di eresia, pur rimproverandone la condotta pastorale, infatti San Leone II dette di questo Concilio una interpretazione autorevole, che chiuse il caso a favore di Onorio.

Presento qui una breve esposizione del caso fatta dal Servo di Dio Padre Tomas Tyn, che non è stato uno storico della Chiesa, tuttavia con grande lucidità ci presenta come sono andate le cose.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 30 aprile 2024
 
Continua a leggere:
 

 
 
 
 
 
Immagine da Internet:
Quarto Concilio Ecumenico di Calcedonia del 451, Vasilij Ivanovič Surikov, olio su tela, 1876 
 
 
 
 
 
 
 


 
 
 
 
Immagine da Internet: Papa Onorio

02 maggio, 2024

In preparazione del Giubileo 2025 - Seconda Parte (2/3)

 

In preparazione del Giubileo 2025

Seconda Parte (2/3)

Siccome il Concilio di Nicea costituisce l’inizio del cammino fatto dalla Chiesa per chiarire il mistero della identità di Cristo, cammino che è proseguito con il Concilio di Efeso e si è concluso con il Concilio di Calcedonia, ho pensato di presentare ai Lettori anche gli insegnamenti di P. Tomas relativi a questi altri due Concili.

Concilio di EFESO

34

            CRISTOLOGIA DEI PADRI APOSTOLICI.

            La divinità di Cristo è pure affermata con grande nettezza dai Padri apostolici. Era anzi, codesto, il punto essenziale della catechesi cristiana. L’insistenza su tal verità non mancò d’indurre certi cristiani a mettere in dubbio il carattere reale della umanità di Gesù; il docetismo (da δοϰέω, sembrare) (dottrina che insegnava essere stato il corpo del Salvatore una pura parvenza si diffuse sopratutto in Asia Minore sui primi del secolo secondo, e sant’Ignazio dovè batterlo in breccia. In tutte le sue epistole alle chiese orientali, egli afferma, con incomparabile forza di espressione, che Gepù è veramente uomo e il suo zelo nel mantenere intatta la verità su cotal punto ha fatto di lui il primo teologo di Maria, di cui ha difeso tanto la divina maternità che la verginal concezione. Ma, nel medesimo 35 tempo, sant’Ignazio riconosce espressamente la divinità di Gesù chiamandolo ad ora ad ora Dio (ὁ Θεός ; Smyr. I), mio Dio (ὁ Θεός μου ; Rom. VI), nostro Dio (ὁ Θεός ἡμῶν ; Ef. Inscriz.), l’Iddio Gesù Cristo (Θεός Ἰεσοῦς Χριστός ; Trall. VII) e praticando con tutta sicurezza ciò che i teologi appelleranno la comunicazione degli idiomi. Gli altri padri apostolici presentano una simile dottrina. 

Continua a leggere:

https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/in-preparazione-del-giubileo-2025_1.html




Immagine da Internet:

Concilio di Efeso del 431, Dértail de la mosaïque de la basilique de Fourvière à Lyon (partie de droite)
 
 
 
 
 

 

01 maggio, 2024

In preparazione del Giubileo 2025 - Prima Parte (1/3)

 

In preparazione del Giubileo 2025

Prima Parte (1/3)

Nell’imminenza della pubblicazione della Bolla di indizione del Giubileo da parte del Santo Padre*, ho pensato di fare cosa gradita ai Lettori pubblicare alcune note storiche redatte dal Servo di Dio Padre Tomas Tyn**, che possono aiutare a comprendere la grande importanza del Concilio di Nicea del 325, il quale definisce dogmaticamente che “Gesù è consostanziale al Padre” (omousios) ossia, come proclamiamo nel Credo, “della stessa sostanza del Padre”.

Siccome il Concilio di Nicea costituisce l’inizio del cammino fatto dalla Chiesa per chiarire il mistero della identità di Cristo, cammino che è proseguito con il Concilio di Efeso e si è concluso con il Concilio di Calcedonia, ho pensato di presentare ai Lettori anche gli insegnamenti di P. Tomas relativi a questi altri due Concili.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 30 aprile 2024

*https://www.vatican.va/news_services/liturgy/2024/documents/ns_lit_doc_20240509_notificazione_it.html

** http://www.arpato.org/testi/lezioni_dattiloscritte/Nicea-Efeso-Calcedonia.pdf

Continua a leggere:

 https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/in-preparazione-del-giubileo-2025.html


 

  

 



Immagine da Internet:

Il primo Concilio di Nicea del 325, icona ortodossa

29 aprile, 2024

Il Papa interprete di Cristo

 

Il Papa interprete di Cristo

Cristo ha incaricato Pietro di spiegarci i suoi insegnamenti

 Ne La Nuova bussola quotidiana del 21 gennaio scorso è apparso un articolo di Tommaso Scandroglio dal titolo: Critiche al Papa, come e quando sono lecite. Il tema è di estrema attualità e molto interessante. Ha ragione Scandroglio nel dire che è il punto attorno al quale gira l’attuale conflittualità presente nella Chiesa.

Non direi, come sostiene l’autore, che uno dei due partiti in conflitto, quello dei modernisti, consideri il Papa infallibile in tutto quello che fa e dice. Essi piuttosto interpretano a loro favore parole e fatti del Papa, che spesso si prestano ad un’interpretazione modernista. Ma non hanno nessuno scrupolo ad attaccarlo duramente e ad accusarlo di conservatorismo quando si mostra apertamente testimone della tradizione o lascia intendere la sua opposizione al modernismo. Essi infatti non credono affatto nell’infallibilità pontificia, perché, da buoni modernisti, hanno, della verità, una concezione soggettivista, relativista e storicista.

Continua a leggere:

https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/il-papa-interprete-di-cristo.html


Il Beato Pio IX nel 1854 ci spiegò col dogma dell’Immacolata che Maria fu esente dalla colpa originale. San Pio X nella Pascendi ci ha spiegato che Dio è trascendente e non immanente. Pio XII nel 1950 ci spiegò che l’esser Maria piena di grazia comportò la sua assunzione in cielo anima e corpo al termine della sua vita terrena. San Paolo VI nel Concilio Vaticano II ci spiegò che il diritto alla libertà religiosa è basato sulla Rivelazione. San Giovanni Paolo II chiarì che le parole di Gesù riferite alla futura risurrezione «saranno come angeli» vogliono dire che uomo e donna avranno il proprio dominio spirituale sul proprio corpo. Papa Francesco ci ha spiegato che la concezione biblica della conoscenza comporta il primato della realtà sull’idea e il rifiuto dello gnosticismo e dell’idealismo.

Immagine da Internet: Papa Francesco I

27 aprile, 2024

Trattato sugli Atti umani - P. Tomas Tyn - Lezione 9 (2/2)

 

 Trattato sugli Atti umani

P. Tomas Tyn

Lezione 9 (Parte 2/2)

P.Tomas Tyn, OP - Corso “Atti Umani” - AA.1986-1987 - Lezione n. 16 (A-B)

Bologna, 24 marzo 1987

http://www.arpato.org/corso_attiumani.htm

Miei cari, notate che nell’articolo 4 della Questione 20, S.Tommaso si chiede se l’atto esterno aggiunga qualche cosa alla moralità dell’atto interiore. Ora, S.Tommaso parte da questa constatazione, che mi pare estremamente importante, e cioè che, se l’atto esterno, notate, nulla aggiungesse a quello interno, basterebbe avere buona volontà di agire, senza mai entrare  nella concretezza della situazione in cui ci si trova.

Quindi si potrebbe ovviare in ogni situazione con delle belle intenzioni. Uno potrebbe dire: beh, insomma, sì, io vorrei tanto soccorrere i poveretti,  però che si arrangino. Ora, è evidente che ci sono delle situazioni, che effettivamente esigono non solo la volontà, ma anche l’azione. Questa è una cosa importantissima. 

Continua a leggere:

https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/trattato-sugli-atti-umani-p-tomas-tyn_27.html

 

S.Tommaso considera proprio la pienezza dell’atto umano. E qui di nuovo si manifesta in qualche modo la sua visione metafisica della morale. Il bene è una pienezza dell’atto. Come il bene fisico è la pienezza dell’essere, così il bene morale è la pienezza dell’essere dovuto all’atto umano. E ci sono delle situazioni, in cui lo stesso agire esteriormente è proprio dovuto, è richiesto, cosicchè, se non si agisce c’è un peccato di omissione, c’è una mancanza di essere dovuto.
 
E’ qui che riecheggiano le parole di S.Paolo nella Lettera agli Efesini: Veritatem facientes in caritate, facendo la verità nella carità. Sul piano operativo del fare, dell’agire, bisogna mettere in pratica, affermare a livello della praxis, ciò che è la verità teorica, la verità dell’essere umano nelle sue più intime aspirazioni.  

Notate che paradossalmente proprio nelle cose minime si manifesta la grandezza dei principi. Si dice anche così: Deus in minimis maximus. Dio si rivela massimo nelle creature più piccole e apparentemente più insignificanti. Similmente, potremmo dire, come dice sempre S.Tommaso, che la potenza di una causa si manifesta nella lontananza dell’effetto, che la causa riesce a raggiungere. 
 
Immagine: P. Tomas Tyn, foto di ottobre 1989, Roberta Ricci

26 aprile, 2024

Trattato sugli Atti umani - P. Tomas Tyn - Lezione 9 (1/2)

 

 Trattato sugli Atti umani

P. Tomas Tyn

Lezione 9 (Parte 1/2)

P.Tomas Tyn, OP - Corso “Atti Umani” - AA.1986-1987 - Lezione n. 16 (A-B)

Bologna, 24 marzo 1987

http://www.arpato.org/corso_attiumani.htm

 

… appunto l’oggetto, il fine e le circostanze.

Ebbene, la moralità dell’atto umano interno è una sola e S.Tommaso ci spiega anche perchè è una sola, perchè dall’atto interno dipende ovviamente causalmente l’atto esteriore. E quindi è giusto che ciò che è principio sia più semplice del principiato o derivato. Quindi, la moralità dell’atto umano interno o meglio della parte interna dell’unico atto umano, deriva dal fine, unicamente dal fine, perché abbiamo visto che in fondo moralmente parlando l’atto umano è una unità.

Vedremo invece come la moralità dell’atto esterno deriva dalle altre due fonti, cioè dall’oggetto, che viene posto in qualche modo in atto, e viene realizzato nelle circostanze più o meno dovute. Quindi la moralità è tratta dall’oggetto e dalle circostanze. 

Continua a leggere:

 https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/trattato-sugli-atti-umani-p-tomas-tyn_26.html


Tutti i mezzi dipendono sempre dal fine. Pensate che qui si tratta non dell’atto umano nella sua integrità, per così dire, ma solamente dell’atto umano esterno. E S.Tommaso insiste su di una cosa molto importante. E cioè che l’atto umano esterno ha una moralità sua insita in esso e indipendente dai fini più o meno edificanti che ci mette la volontà.  

Di nuovo torna questo realismo tomistico, che trova quindi la sua controparte morale nel realismo epistemologico. Siccome S.Tommaso è convinto che noi non proiettiamo interiormente la verità nelle cose, ma riconosciamo le cose vere come sono in se stesse; similmente nell’agire umano, certamente ci sarà anche il rapportare il nostro agire esterno a dei fini, che conserviamo dentro di noi, nel segreto del nostro cuore, in pectore, come si dice. Ma anzitutto sarà da considerare che ogni azione esterna, prima ancora di essere rapportata dall’agente al suo fine interiore, è già moralmente qualificata in se stessa. Non è quindi possibile dire: io ho voluto far bene, ho avuto tante, tante belle intenzioni; sì, mi è capitato di svaligiare una banca, ma ho voluto far bene. Non è possibile.


Quindi, bisogna che siano corrette le circostanze, che sia corretta la materia dell’atto e che sia corretto il fine per il quale si agisce. Come è un’azione moralmente corrotta quella di dare l’elemosina, atto esterno buono, per un motivo interiore disordinato, per esempio vanagloria, così è altrettanto disordinato fare un’azione esteriormente sbagliata, per esempio prostituirsi, con un fine buono, assicurare il bene economico della famiglia.

Quindi, in sostanza, bisogna che sia buono tutto, che siano buone le circostanze, la materia e il fine. E qui vedete che non tutta la moralità dell’atto complessivo dipende dalla sola volontà. Non basta volere. Bisogna volere e agire bene. Cioè bisogna che la volontà, che è motrice delle facoltà, a livello dell’azione, muova a un’azione esterna, che a sua volta sia buona. Quindi bisogna che tutto sia in una armonia del bene, cioè che sia buona sia la volontà interiore che l’atto esterno, che essa pone in atto. 

Immagini: Padre Tomas Tyn, ospite delle Suore Domenicane di Santa Caterina (Bologna)

24 aprile, 2024

Il rapporto di Dio col demonio

 

Il rapporto di Dio col demonio

La ribellione di Satana

La teologia ascetica tradizionale tratta molto del rapporto del demonio con noi, ma non sviluppa il tema del rapporto del demonio con Dio, che invece costituisce il principio di spiegazione e il criterio di valutazione e di discernimento del rapporto nostro col demonio.

Come sappiamo dalla fede, Dio creatore degli angeli ha punito eternamente alcuni angeli che si sono ribellati alla sua volontà. Egli tuttavia ha voluto conservarli nell’esistenza e quindi ha continuato, come causa prima e motore immobile, a causare gli atti della loro volontà e a muovere la loro volontà verso il bene. 

Continua a leggere:

https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/il-rapporto-di-dio-col-demonio.html


Satana è convinto che Dio gli abbia lasciato il possesso e il dominio di tutti i beni della terra; crede di poter vincere i santi e far trionfare i malfattori, vuol mandare tutti all’inferno, vuol bloccare la via del paradiso. È chiaro che quando Cristo chiama Satana «principe di questo mondo» ironizza. Ma Satana e i suoi accoliti ne sono convinti.

Quando Dio comanda a Satana, egli, proprio adesso che è fissato per sempre nella cattiva volontà e nella scelta contro Dio, proprio adesso – sembra un paradosso - non può più disobbedire come fece agli inizi, quand’era ancora un angelo innocente. Egli resta bensì un odiatore di Dio e un ribelle, resta in colpa, disobbediente in relazione, però, al peccato compiuto agli inizi, nel senso che non se ne pente assolutamente.

Ciò che ci consola e ci conforta e alla fine ci dà pace, forza e coraggio nella lotta quotidiana contro Satana è che Dio, col permettere queste sofferenze, queste prove e questi pericoli vuole purificarci dai nostri peccati e fortificarci nelle virtù. È legge della vita a partire da quella vegetativa fino a salire a quella spirituale che essa si rafforza vincendo forze nemiche: Satana è l’avversario che in Cristo dobbiamo e possiamo vincere per evitare la morte eterna e conquistare la vita eterna.

 

Colpisce il fatto che il demonio nel corso della storia non si dà mai per vinto, ma sempre di nuovo con nuove invenzioni ritenta sempre di sconfiggere Cristo e la Chiesa.

 

Immagini da Internet: Illustrazioni di Gustave Doré 

 

 

22 aprile, 2024

La luce della sofferenza - Giobbe e Gesù Cristo - Seconda Parte (2/2)

 

La luce della sofferenza

Giobbe e Gesù Cristo

 Seconda Parte (2/2)

 

 La risposta di Cristo

 Gesù Cristo suppone quanto Giobbe sa circa il rapporto di Dio con la sofferenza e ci insegna molte cose su di essa. Ci chiarisce le sue origini dal peccato originale, ci chiarisce perché essa può essere buona e voluta da Dio, ci chiarisce la sua funzione salvifica, ci chiarisce come liberarcene definitivamente.  Ci chiarisce che Dio ricava dal peccato di Adamo una felicità – la figliolanza divina – superiore a quella felicità umana che ci sarebbe stata se Adamo non avesse peccato.

Tuttavia, possiamo osservare che, se Dio avesse voluto, avrebbe potuto creare un’umanità gloriosa di figli di Dio esattamente come quella che risulta dall’attuale piano di salvezza, anche se non avesse permesso al peccato di entrare nel mondo e quindi anche se non fosse stata necessaria la redenzione di Cristo per raggiungere l’attuale scopo finale della storia della salvezza. Perchè Dio ha voluto non impedire il peccato? Non lo sappiamo, né Cristo ce lo ha rivelato, perché questo mistero è talmente intimo alla volontà divina e per noi impenetrabile, che può esser noto solo a Dio.

Continua a leggere:

https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/la-luce-nella-sofferenza-giobbe-e-gesu_21.html


L’Antico Testamento presenta con chiarezza due concetti riguardanti il rapporto di Dio con l’uomo, concetti che corrispondono ai dati della ragione e della teologia naturali, utili quindi per il dialogo interreligioso: il concetto che Dio castiga il malvagio e premia il giusto e il concetto che l’uomo, sentendosi in debito di colpa verso Dio, gli offre sacrifici per ottenere grazia e perdono.

Gesù Cristo da una parte conferma ciò che Giobbe aveva capito e cioè il dovere del giusto sofferente di rassegnarsi alla volontà di Dio. E dall’altra aggiunge ciò che Giobbe non sapeva e che Cristo stesso rivela. Gesù infatti rivela la possibilità di un rito religioso sacrificale espiatorio, rivelando il significato della profezia isaiana sul Servo di Dio sofferente come riferita a Lui stesso. Egli è dunque il Giobbe che accetta serenamente la sofferenza per amor nostro dalle mani di Dio, ma è un Giobbe che sa perché Dio gli ha mandato la sofferenza: per riscattare l’umanità con l’offerta sacerdotale di se stesso in espiazione dei nostri peccati al nostro posto.

Ma ciò non vuol dire che in quest’opera di salvezza Cristo faccia tutto Lui e a noi non resti altro che godere dei frutti del suo sacrificio. Se vogliamo salvarci, anche noi dobbiamo prendere ogni giorno la nostra croce e salire sulla croce con Cristo.

Immagine da Internet: Cristo crocifisso (particolare), Beato Angelico

21 aprile, 2024

La luce della sofferenza - Giobbe e Gesù Cristo - Prima Parte (1/2)

 

La luce della sofferenza

Giobbe e Gesù Cristo

 Prima Parte (1/2)

 Siamo naturalmente portati a respingere

la sofferenza in noi e negli altri

La nostra natura avverte la sofferenza come qualcosa di odioso e ripugnante, per cui è portata spontaneamente a combatterla, fuggirla ed evitarla o quanto meno, se non la può allontanare o se non se ne può liberare, se non la può vincere o eliminare, cerca di alleviarla o diminuirla. Importante virtù è la pazienza o sopportazione della sofferenza, sopportazione ottenuta con vari mezzi, tra i quali molto importante è quello di trovare una ragione alla sofferenza, giacchè il sapere il perché qualcosa accade, è sempre per noi animali ragionevoli, fonte di piacere.  

Il sadismo e il masochismo, la crudeltà, l’autolesionismo, il gusto di soffrire e far soffrire, l’amore per il dolore come tale, sono inclinazioni perverse bisognose di cura psichiatrica o abominevoli vizi contro natura, sono peccati gravi contro il legittimo bisogno di felicità, di piacere, di godimento e di benessere, contro il sano e naturale amore di se stessi e del prossimo. 

Continua a leggere:

https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/la-luce-nella-sofferenza-giobbe-e-gesu.html

Una tentazione può essere quella di considerare come un male assoluto non il peccato, ma la sofferenza. Si crede che Dio non vuole nessun male, né il male di colpa né il male di pena, né castighi, né penitenze, né rinunce, né sforzi, né sacrifici.

Per gli antichi pagani la sofferenza c’è perchè è giusto, è divino che ci sia. Il dio stesso, come ognuno di noi, è soggetto al Fato o al Destino. Non bisogna fare domande o accuse al Fato, ma si deve semplicemente accettarlo, perchè comunque uomini e dei fanno per forza la sua volontà.

I pagani, in particolare gli stoici, conclusero che la sofferenza non può e non dev’essere tolta, perché è divina.

Invece la Bibbia ci insegna a non rassegnarci al male, a chiamarlo col suo nome. La Bibbia ci insegna che le vere sventure, le vere disgrazie non sono gli incidenti di macchina o i terremoti o le epidemie o i lutti o le umiliazioni, ma il fastidio per le cose dello spirito, la sordità alla Parola di Dio, il disamore per le virtù, l’attaccamento al peccato, la mancanza di compassione per i sofferenti, la pigrizia nel fare il bene, il badare solo a se stessi.

Il personaggio biblico Giobbe, uomo innocente colpito dalla sventura, capisce subito come la sofferenza può essere mandata da Dio: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!» (Gb 1,21). Ciò vuol dire che se è mandata da Dio che è buono, può non essere una cosa cattiva, può non essere un male.

Dunque un Dio che manda la sofferenza non è un Dio cattivo. Ma se la manda, vuol dire che ci sarà un perché la manda, giacchè Dio non può far nulla di irragionevole o senza motivo. Tuttavia Giobbe non riesce a capire questo perché o questo motivo. Allora si fida di Dio. E ragiona così: se Dio che è buono mi manda la sofferenza, che però è un male che mi ripugna e che sento di non meritarmi perchè sono innocente, vorrà dire che o la trasforma in bene o che comunque può essere buona e benefica.


Immagine da Internet: Giobbe, Marc Chagall